lunedì 27 aprile 2009

Macondo - prima parte




 

Gli avvenimenti che avrebbero dato il colpo mortale a Macondo cominciarono a intravedersi quando portarono nella casa il figlio di Meme Buendia. La situazione pubblica era in quei tempi così incerta, che nessuno aveva l'animo disposto ad occuparsi di scandali privati, sicché Fernanda poté approfittare di un ambiente propizio per mantenere il bambino nascosto come se non fosse mai esistito. Dovette accettarlo, perché le circostanze in cui glielo portarono non resero possibile un rifiuto. Dovette sopportarlo contro la sua volontà per il resto della sua vita, perché nell'ora della verità le era mancato il coraggio di compiere l'intima determinazione di affogarlo nella cisterna del bagno. Lo chiuse nell'antico laboratorio del Colonnello Aureliano Buendia. Riuscì a convincere Santa Sofia de la Piedad di averlo trovato che galleggiava in un cestino. Ursula sarebbe morta senza conoscere la sua origine. La piccola Amaranta Ursula, che una volta era entrata in laboratorio mentre Fernanda stava alimentando il bambino, credette anche lei alla versione del cestino galleggiante. Aureliano Secondo, definitivamente staccato da sua moglie per il modo irrazionale col quale questa aveva trattato la tragedia di Meme, non seppe dell'esistenza del nipote fino a tre anni dopo che glielo avevano portato in casa, quando il bambino scappò dalla sua prigione per una disattenzione di Fernanda, e si affacciò sul portico per una frazione di secondo, nudo e coi capelli arruffati e con un impressionante sesso da barbiglio di tacchino, come se non fosse una creatura umana bensì la definizione enciclopedica di un antropofago.

Fernanda non aveva fatto i calcoli su quel tiro birbone del suo incorreggibile destino. Il bambino fu come il ritorno di una vergogna che lei credeva di aver esiliato per sempre dalla casa. Si erano appena portati via Mauricio Babilonia con la spina dorsale spezzata, e già Fernanda aveva stabilito fino al particolare più insignificante il piano destinato ad eliminare ogni vestigio dell'obbrobrio. Senza consultare suo marito, fece il giorno dopo i suoi bagagli, mise in una valigetta i tre ricambi di cui sua figlia poteva aver bisogno, e andò a cercarla nella stanza mezz'ora prima dell'arrivo del treno.

« Andiamo, Renata » le disse.

Non le diede alcuna spiegazione. Meme, da parte sua, non se l'aspettava né la voleva. Non soltanto ignorava dove erano dirette, ma a lei non sarebbe importato nemmeno se l'avessero condotta al macello. Non aveva più parlato, né avrebbe più fatto per il resto della vita, da quando aveva sentito lo sparo in fondo al patio e il simultaneo urlo di dolore di Mauricio Babilonia. Quando sua madre le ordinò di uscire dalla stanza, non si lavò né si pettinò, e salì sul treno come una sonnambula senza nemmeno notare le farfalle gialle che continuavano ad accompagnarla. Fernanda non seppe mai, né si prese il disturbo di indagare, se suo silenzio ermetico era una decisione della sua volontà,o se fosse rimasta muta per il colpo della tragedia. Meme si rese appena conto del viaggio attraverso la regione incantata. Non vide le ombrose e interminabili piantagioni di banano ai due lati del percorso. Non vide le case bianche dei gringos, né i loro giardini inariditi dalla polvere e dal caldo, né le donne in pantaloncini e camicie a righe azzurre che giocavano a carte sotto i portici. Non vide i carri di buoi carichi di caschi sui sentieri polverosi. Non vide le ragazze che saltavano come pesci nei fiumi trasparenti per lasciare nei passeggeri del treno l'amarezza dei loro seni splendidi, né le baracche multicolori e miserevoli dei lavoratori dove svolazzavano le farfalle gialle di Mauricio Babilonia, e sulle cui soglie c'erano bambini verdi e squallidi seduti sui loro pitalini, e donne gravide che lanciavano improperi al passaggio del treno. Quella visione fugace che per lei era una festa quando tornava dal collegio, passò nel cuore di Meme senza farlo fremere. Non guardò dal finestrino nemmeno quando terminò l'umidità ardente delle piantagioni, e il treno passò per la pianura di papaveri dove c'era ancora il corbame carbonizzato del galeone spagnolo, e uscì poi verso la stessa aria diafana e lo stesso mare spumoso e sudicio dove quasi un secolo prima si erano arenate le illusioni dì José Arcadio Buendia.

 

mercoledì 15 aprile 2009

sabato 4 aprile 2009